#7 | Lifetime stories in the making
Di un altro anno trascorso, di traguardi, di lezioni imparate (o da imparare) e di Feste(r) da vivere al presente.
Sta accadendo ciò che volevo succedesse quando ho deciso di creare questo spazio: la “newsletter” sta avendo delle performance di merda un po’ così*. Del resto, sono qui per migliorare: questo è il mio laboratorio di scrittura, il non-luogo in cui mi sto facendo le ossa, sperimentando, spremendomi le meningi.
Allora, miei carissimi diciassette lettori:
✨COS’È CHE VI FA CAGARE?✨
Lo so che mi prenderete per matta, ma è uno dei principali motivi per cui ho avviato questo progetto. Avere qualcuno che mi dice “mamma mia, che merda💕!” con tanti cuoricini (o anche senza). Fatemi un regalo. È il nostro ultimo appuntamento per quest’anno (non ho nemmeno aggiunto la doppia cifra alle “newsletter” che ho scritto e va benissimo così). Il 7, però, è un numero magico e questa è la “newsletter” #7. A dirmi che il 7 è un numero magico (in verità, il più magico di tutti) è stato Pietro, poco dopo esserci conosciuti. Ovviamente gli ho creduto sulla parola. Oggi è il 13 Dicembre. Un giorno a cui sono molto legata perché, tre anni fa, ho conseguito la Magistrale che mi è quasi costata la vita (letteralmente). Qui al nord si festeggia Santa Lucia e ci si fa dei regali (a carico della stessa Santa Lucia): spero che questa “newsletter” possa essere una specie di dono perché, nonostante le performance di merda un po’ così, per me è ancora l’appuntamento più bello delle mie sessioni di scrittura.
Visto che siamo in tema di regali (a proposito, voi come siete messi con quelli di Natale?), facciamocene uno tra di noi: vi va di farmi sapere che cosa pensate di questi primi tre mesi in cui avete riso delle mie scemenze, riflettuto su qualcosa di più intenso, pianto in qualche punto (spero il meno possibile)?🎁 Fatelo come preferite: lasciando un commento qui sotto, scrivendomi su Instagram, mandandomi un messaggio tramite Whatsapp. Non vi propongo di scrivere delle lettere di vostro pugno: l’unico che l’ha fatto per davvero è Pietro e, non a caso, è l’uomo che sto sposando.
Qualora vogliate farlo, per me sarebbe un regalo bellissimo. Passerei ore a ascoltarvi (in questo caso a leggervi) e mi aiuterebbe a migliorare sotto molti aspetti. Vi ho detto che questa “newsletter” è il nostro ultimo appuntamento per quest’anno. Beh, in effetti è così. O meglio, sono io che voglio che sia così. Il 2025 è alle porte e io sento la necessità di preparare la mia mente, il mio cuore, la mia anima e il mio corpo (probabilmente anche l’apparato digerente, difatti ho ricominciato a prendere i fermenti lattici). Nelle “newsletter” precedenti vi ho detto che sarà un anno di rivoluzione. E alle rivoluzioni mica si può arrivare stanchi, giusto?
Il primo, piccolo cambiamento riguarderà proprio questo appuntamento. La prima “newsletter” dell’anno che verrà non parlerà di me. Sarà la storia #2 del mio, ormai nostro, Lifetime stories in the making.
*sono sempre riluttante nei confronti dell’utilizzo di questa parola rispetto alla “newsletter”, ma la dashboard di questo posto parla proprio di performance, quindi non si scappa.
Quando viene Dicembre❄️
Qual è il tuo rapporto con Dicembre? Fai un bilancio dell’anno che è ormai trascorso o progetti minuziosamente tutto quello che serve per raggiungere i tuoi obiettivi futuri? Da questo punto di vista, secondo me, il mondo si divide in tre categorie (al netto del fatto che odio le categorizzazioni, quindi fai un po’ come ti pare, l’importante è che abbia senso per te): ci sono quelli che fanno esclusivamente un bilancio dell’anno ormai trascorso, quelli che fanno esclusivamente una minuziosa progettazione di tutto quello che serve per raggiungere gli obiettivi futuri e quelli che fanno un mix delle due cose. Tu a quale categoria appartieni?
Io appartengo alla terza (non riesco mai a essere così netta, a parte in alcune cose): faccio un bilancio di tutto quello che è accaduto e formulo gli interrogativi che voglio trovino risposta nell’anno che verrà. Faccio, in verità, anche una terza attività: prendo nota di tutte quelle volte in cui la magia è venuta a trovarmi o l’ho riconosciuta nelle cose semplici. Il 2024 è stato un anno di crescita e di cambiamento tutto interiore. C’è stato qualche momento doloroso, qualche momento di forte preoccupazione, qualche altro in cui mi sono cadute le palle e mi sono rotolate a terra ho perso la pazienza. Ci sono stati, soprattutto, importanti momenti di crescita, talmente evidenti da essermene resa conto mentre li vivevo. In primis, essenziale, la gestione del rapporto con gli altri. Per carità: ho amicizie che durano da ventisette/ventotto anni, quindi mi viene un po’ difficile credere che non sono in grado di costruire dei legami. Però, insomma. Quest’anno ho scoperto che non a tutti il mio essere una ragazza chill (scusami, il chill guy ormai lo vedo dappertutto, ma tant’è) va bene, però nella mia condizione “poche regole, ma chiare” ci vivo benissimo (anche perché non la applico a me soltanto, ma vale per tutti, NONOSTANTE TUTTO). Finché sono certa di non fare del male a nessuno, cerco di mediare (e di fare un po’ quel cavolo che mi pare). In secondo luogo, la mia visione del lavoro e di quello che è richiesto per vivere all’interno della società. In terzo luogo, forse la cosa più importante che è accaduta in questi trecentosessantasei giorni, in che modo io, Ilaria, posso coesistere nella mia essenza con quello che, appunto, è richiesto per vivere all’interno della società. Anche perché, se non ci fosse stato questo cambio di prospettiva, non saremmo qui a farci dei pipponi a due mani leggere le mie parole.
Qualche giorno prima di Capodanno ho un rito tutto mio. Prendo un foglio di quaderno a quadretti piccoli (da sempre i miei preferiti) e, lungo tutto il perimetro, sia sul lato lungo che su quello corto, metto per iscritto le domande che vorrei trovassero risposta durante l’anno che verrà. Le scrivo con la penna blu. Le rileggo. Le chiudo tra le pagine di uno dei miei libri preferiti. Poi le dimentico e lascio che la vita fluisca in tutte le direzioni in cui deve fluire. Alla fine di ogni anno, riapro quel libro e le tiro fuori. Ti sorprenderà sapere che, ogni volta, tutti gli interrogativi che mi pongo trovano una risposta. Non sempre, ovviamente, positiva. L’importante, però, è che ci sia. Negli ultimi dieci anni ho imparato che, per quanto mi riguarda, non esiste niente di più logorante delle domande che non hanno risposta. La mia psicologa mi ha insegnato che, volendo, le risposte a quelle domande possiamo darcele da noi. Perché, e su questo non potrei essere più d’accordo, molto spesso, le persone che dovrebbero fornircele non sono in grado di farlo. Ma che cazzo vuol dire? All’inizio, questa cosa per me era totalmente priva di senso. Voglio dire: mi incasini la vita, magari mi tratti male e poi? Non sai nemmeno cosa ti ha spinto a farlo? “Non lo so”, mi dicevo, “allora così vale tutto”. Pian, piano ho capito un’altra verità altrettanto sconcertante: le persone non passano molto tempo a cercare di conoscersi meglio. Oddio, io mi arrovello il cervello fin troppo e spacchetto ogni minima cosa che faccio in cento pezzi diversi e, forse, nemmeno così va bene. Però, ecco, quelli che mi rispondono “Ma sono fatto/a così, prendimi per come sono”, mi fanno reagire più o meno così👇🏼
Per l’anno 2022, per esempio, tra le varie domande a cui volevo trovare risposta, ce n’erano due molto importanti:
Sono pronta a ricucire il rapporto con mio padre e, soprattutto, ad accettarlo per come è?
Sarò in grado di riconoscere l’amore vero nel momento in cui lo dovessi incontrare?
Alla prima ho risposto all’incirca dopo una settimana: ho riscritto a mio padre il 6 Gennaio. A distanza di quasi tre anni, siamo ancora qui e il nostro rapporto è così bello che non avrei mai saputo immaginarlo migliore di come è. Alla seconda domanda ho impiegato qualche mese in più a trovare risposta. Poi, l’11 Settembre, ho conosciuto Pietro.
❓Quali saranno le mie domande per il 2025❓
Ancora non lo so🤷🏼♀️
Alcune saranno di taglio più pratico e riguarderanno il lavoro che sto scegliendo e quello che, nel frattempo, mi consente di vivere. Altre, la maggior parte, riguarderanno i rapporti con le persone che ho più a cuore e saranno anche quelle a cui sarà più difficile trovare una risposta che mi soddisfi fino in fondo. Per il resto, non amo fare progetti in maniera minuziosa. La vita mi ha riservato talmente tanti imprevisti che, ormai, tendo a sviluppare un’idea generale di quello che vorrei e di come vorrei essere io, Ilaria, entro la fine dei prossimi trecentosessantacinque giorni che mi attendono. Poi, però, ho ben chiaro che le cose che posso controllare sono talmente poche che mi bastano le dita di una mano. Per il resto, spero solo di avere delle ginocchiere e delle gomitiere abbastanza spesse da non farmi troppo male e che le “cose che non avevo messo in conto” non siano troppo pesanti da affrontare (anche se, lo so, poi ci passo attraverso senza farmi troppe domande). Per tutti gli imprevisti piacevoli (e, credimi, alla fine dell’anno ne conto più di quelli che credi), invece, ho il cuore sempre pronto🫀✨
Infine, la magia. Quante volte è venuta a trovarmi quest’anno? Tante. Forse, perché sapeva che ne ho avuto più bisogno del solito. Durante questi mesi, a volte, ho avuto la sensazione di essere approdata in un luogo in cui quelli come me non hanno molto spazio. Sì, ci sono persone che ci possono trovare interessanti, tipo scimmie che fanno numeri pazzeschi al circo, ma la cosa finisce qui. Non ho avuto molto spazio per essere come sono, per ragionare come ragiono, per raccontarmi tutte le storie che in genere mi racconto. Ho avuto paura che non ci fosse spazio per la magia, per il mio universo e per tutte quelle cose un po’ delicate che mi porto appresso. È stato in questo momento, allora, che la magia è venuta a trovarmi e mi ha fatto rendere conto che, invece, il mio spazio per respirare esiste, anche se non è così ampio come quello a cui sono abituata. Alla fine, il mio patrimonio genetico mi viene sempre in aiuto quando si tratta di punzecchiare il mio spirito di adattamento. Discendo da genti raminghe, che hanno cambiato il loro Paese, la loro città e la loro casa un’infinità di volte e l’hanno fatto per secoli, su e giù per tutta l’Europa e non solo. A volte mi dico che è anche per questo che per me casa è un non-luogo: è lo scrivere, è il mio compagno, è il mio gatto, è la mia famiglia, tutta, ovunque si trovi. Forse, mi dico, è da quei giorni lontani che ognuno di noi porta con sé un po’ di magia, aspettando il momento in cui riceverà la chiamata e il viaggio comincerà: dentro di noi, fuori di noi e nelle persone che incontriamo. Forse è così perché è quello che ho nel sangue. Forse è così perché so che la magia esiste e che è pronta a condurmi attraverso luoghi e persone che non avrei mai immaginato di conoscere e incontrare. Non saprò mai qual è la risposta giusta a questo interrogativo e non è mai comparso tra quelli a cui vorrei trovarla per davvero. Mi dico che va bene così, che in fondo è esattamente come dovrebbe essere: inafferrabile, inspiegabile, magico.
Dicembre è anche quel momento in cui mi guardo indietro per controllare se tutti i compagni con cui ho iniziato l’anno sono ancora con me. È quel momento in cui mi concedo di lasciarmi travolgere dalla nostalgia di quello che è stato, anche se è stato imperfetto. Quest’anno qualche dolore me l’ha riservato e, nel guardarmi indietro, non ho scorto tutte le persone con cui è iniziato. Ne manca una in particolare, quell’unica che non avrei mai pensato di vedere mancare così presto: quel Pietro Vittorietti a cui, negli ultimi due anni, ho pensato ogni giorno, anche solo per cinque minuti. Quel Pietro Vittorietti che mi ha raccontato di un lieto fine possibile, di un caffè che avremmo preso insieme proprio tra qualche giorno, vicino al mare, nella sua Palermo. Se n’è andato una notte d’Agosto, mentre io ero in Islanda e, con un sorriso a trentasei denti, vedevo l’Aurora Boreale per la prima volta. È stato un dolore che non ho gridato, ma che dentro al mio petto ha fatto un gran chiasso, aprendomi quella voragine nera che mi è capitato di conoscere in altri frangenti. Ora lo immagino in un luogo in cui il giorno rivive sul profilo degli alberi e le correnti del mattino riprendono il mare. Lo immagino felice e sorridente, pronto a farci ridere mentre fa il gesto del surfista e non per dirci che è nel chill, ma per dare più vigore alle cazzate che sta sparando. Lo immagino diventare grande, innamorarsi, sposarsi e creare una famiglia con dei bambini a cui trasmettere l’unico credo calcistico possibile: quello nel Cagliari Calcio. Lo immagino invecchiare e continuare a raccontare storie assurde. Lo immagino così, anche se avrà per sempre ventinove anni 🖤
Per te di cosa sa il Natale? 🎄
Sa di fuoco scoppiettante? 🔥 Sa di sciate sulla neve ⛷️ o di mete tropicali 🌴?
IL MIO SA DI BORDELLO. DI GENTE CHE SI URLA SOPRA PER RIUSCIRE A SENTIRSI MEGLIO CON, IN SOTTOFONDO, LA TELEVISIONE ACCESA A VOLUME ABBASTANZA ALTO. QUINDI, PERCHÈ SPEGNERLA E PARLARE CON UN TONO DI VOCE NORMALE? MOLTO MEGLIO CONTINUARE A URLARSI L’UNO SULL’ALTRO, FACENDOCI MANDARE I CARABINIERI A CASA.
Il mio Natale, da due anni a questa parte, è nuovamente doppio: il 24 Dicembre si fa il cenone a casa di mamma e poi, il 25, il pranzo a casa di babbo.
Se non capisci questa suddivisione, mi dispiace: è perché non sei figlio di divorziati🤷🏼♀️
Il Cenone della Vigilia è come un evento in discoteca: inizia intorno alle 9:30pm e termina verso le 5:00/5:30am. So che non ci credi, ti immagino lì a pensare “si tratta di un’iperbole”. E INVECE NON È COSÌ. Prima di raccontarti un Cenone della Vigilia “tipo”, è importante fare una premessa: SONO SARDA. Non esiste che si mangia l’antipastino, un primo ipocalorico e un secondo a base di insalata. Da noi si cucina per un reggimento, come se fossimo in cinquanta, anziché i soliti quindici. Si comincia a cucinare un paio di giorni prima, con mamma sempre in ansia, che mi guarda e dice: “Ma secondo te basterà per tutti?”
MAMMA, SÌ. SAPPIAMO GIÀ CHE QUALCUNO, A FINE SERATA, DOVRÀ CACCIARSI LE DITA IN GOLA PER NON RISCHIARE L’ARRESTO CARDIACO. NON DOBBIAMO UCCIDERLI, DOBBIAMO SOLO CELEBRARE LA NASCITA DI GESÙ.
In verità è, per me, un momento di pura magia. Oggi, mentre mi leggi, sono esattamente quattro mesi e tre giorni che non vedo la mia famiglia. È dura? È dura. Per l’anno nuovo, però, ho scritto un paio di bellissimi propositi da realizzare: uno di questi è cercare di tornare più spesso a casa (perché tornare in Sardegna fa sempre bene, anche se lo si fa solo per settantadue ore e volare non mi piace nemmeno un po’).
Se si comincia a cucinare due/tre giorni prima, a parlare del menu, invece, si inizia verso metà Ottobre. Il tutto, in genere, prende vita nel momento in cui mia cugina Sara mi scrive: Amo, a Natale siamo da voi, vero? E, da quel momento, partono le telefonate con mamma, i calcoli approssimativi di quanti saremo (spoiler: sempre tredici/quattordici) e, di conseguenza, di quanti kg di cibo saranno necessari per sfamarci tutti.
👨🏼 Qualcuno direbbe: “È perché siete terroni 👹”; e sì, è esattamente perché siamo terroni e non potrei desiderare altro✨
I giorni di preparazione delle pietanze sono la festa nella festa. Il tutto all’insegna dell’anarchia più totale. Ci si sveglia sul tardi, precisamente quando ci pare. Ci si ritrova in cucina a scaglioni: quindi, verosimilmente, qualcuno farà colazione con il panettone e il latte senza avere, nelle narici, l’invitante profumo di soffritto del ragù di soia; qualcun altro (🙋🏼♀️!), invece, farà colazione nel caos dei profumi e dei sapori, con la tavola mezza occupata dai “lavori in corso”, il rumore dei piatti che vengono appoggiati sul piano da lavoro in cucina, le padelle che sbattono tra loro e, in sottofondo, qualche trasmissione sul fatto che sarà un Natale morigerato (?) per circa un milione e mezzo di italiani.
Tra di voi c’è qualcuno che può spiegarmi in cosa consiste il Natale morigerato? Grazie.
Però, che bello. I giorni di Natale sono una tregua dal passato e dal futuro. Bisogna viverli al presente: con le corse al supermercato per comprare gli ultimi ingredienti, le modifiche alle ricette dell’ultimo secondo, la conta di quanti piatti sono stati preparati per gli onnivori e quanti, ancora, per i vegetariani. Ah, sì, da questo punto di vista viviamo nel 3000. Ognuno è libero di portare avanti il suo credo etico-alimentare anche durante le feste, senza che si assista a scene cringe di familiari che dicono ad altri familiari che stanno mangiando cadaveri, o di familiari onnivori che dicono a familiari vegetariani che “vi ci vorrebbe la guerra: allora sì che mangereste la carne!”.
(Che poi la capostipite dei vegetariani è nonna che, durante la guerra - aveva dieci anni -, preferiva digiunare, piuttosto di mangiare i polli con cui aveva giocato fino al giorno prima).
Si cucina fino a quando ce n’è, perché “non rimandare a domani quello che puoi fare oggi” è il mantra di mia madre (non a caso ♍ ascendente ♋) e perché, tra un assaggio e l’altro, tra una cretinata detta da papà e un’altra detta da me, si fa presto ad arrivare all’una di notte.
👨🏼 Qualcuno direbbe: “È perché siete terroni 👹”; e sì, è esattamente perché siamo terroni e non potrei desiderare altro✨
Il Cenone di Natale è come gli Hunger Games: vince chi arriva a fine serata (cioè quando fuori gli uccellini cominciano a cantare perché sta per sorgere il sole) senza aver vomitato. Praticamente, una lotta per la sopravvivenza. Lo schema è quello classico: in primis, ci si avventa sugli antipasti. Scrivo “ci si avventa” perché, quando ci si trova di fronte agli antipasti, non si sa come mai, sembra che non si mangi da almeno dieci anni. È affascinante e, per il futuro, auspico che ci siano studi approfonditi che aiutino a spiegare questo fenomeno. Siamo consapevoli che, dopo quei diciassette/diciotto antipasti, ci saranno due primi piatti abbondanti? Certo! Eppure, non riusciamo a tapparci la bocca. Tra una portata e l’altra, si beve. No, non ci si sciacqua la bocca con un po’ di vino. SI BEVE. E qui, almeno per quanto mi riguarda, si compie un piccolo dramma: io non reggo l’alcol. Non lo so perché, non l’ho mai capito e non credo che dipenda dal fatto che non ho allenato abbastanza il mio fegato. (Che poi, mi permetto di dissentire: da quando io e Pietro viviamo insieme, il venerdì dopo lavoro è alcolico e il Pirlo - così chiamano lo Spritz a Brescia - che lui prepara è talmente forte che addormenterebbe anche un cavallo). Nel momento in cui bevo il secondo/terzo bicchiere di vino, per me comincia l’oblio. Mi viene sonno. Inizio ad avere caldo. Mi sento esplodere e comincio a insultarmi per aver scelto di indossare qualcosa di aderente. Inizio a cambiare continuamente posizione sulla sedia. (Non mi so sedere composta. È dalle elementari che colleziono reclami di questo tenore:
👩🏻🏫: “Ilaria, a casa tua ti siedi così?”
👧🏼: “Sì.”
👩🏻🏫: “Non ti permetto di fare l’insolente nella mia classe, voglio parlare con tua madre.”
👧🏼: “Ma guardi che si siede anche lei come me, non le direbbe niente che già non sa…”
Espressione sconcertata della docente. Fine delle rimostranze.)
Fino alle 5:30am nella mansarda di casa mia si fa un bordello della Madonna chiasso: intorno alle 2:00am, qualcuno attacca prima con le canzoni anni Ottanta, poi con i balli di gruppo e tutti lo seguiamo senza farci troppe domande; intorno alle 3:00am si fa una sorta di pausa chiacchiere, tutti sudati, tutti seduti sui divani; verso le 3:30am qualche temerario azzarda la possibilità di mangiare un’altra fetta di dolce e di tirare fuori gli amari; alle 4:00am ci si abbandona a racconti nostalgici di gioventù, ci si interroga sul come mai il Cagliari ci faccia perdere dieci anni di vita a ogni partita, si rompono le palle ai cugini piccoli per sapere se hanno trovato l’amore (attenzione, non la “fidanzatina”, né il “fidanzatino”) e se hanno la vaga idea di cosa fare dopo la laurea; intorno alle 5:00am, infine, con gli occhi cerchiati peggio di quelli di un panda, qualcuno di noi, esasperato, propone di preparare una camomilla per favorire la digestione. In genere, per rendere il concetto più chiaro, io, mamma, papà, mio fratello e consorte indossiamo i pigiami per far capire che insomma, dai, ci siamo divertiti, ma la serata è finita. Solo che i nostri parenti non si alzano. Si sta ancora seduti a tavola a chiacchierare, mentre dalle finestre sul tetto cominciamo a sentire i gabbiani che cantano (i gabbiani cantano?) e a vedere il cielo che si schiarisce. Io e mia madre iniziamo a scambiarci occhiate sgomente. Guardiamo la montagna di piatti che dovremo sistemare. Guardiamo papà. Mio fratello. Ci guardiamo tutti quanti, a turno. Anche i piatti, mi sembra, a un certo punto prendono a guardarci, confusi sul da farsi. Il fratello di mia mamma, a quell’ora, ci ha già mandato a cagare da un pezzo, probabilmente dopo averci detto di andare a far lumazze (espressione non traducibile in italiano). Il fratello di papà, invece, continua a interrogarsi sul come mai il Cagliari abbia come obiettivo quello di far morire giovani i suoi tifosi. Io fisso il vuoto, sognando il cuscino e consapevole che la sveglia suonerà dopo nemmeno cinque ore. Mio fratello sorride alla parete, probabilmente credendo di vedere Morfeo che lo aspetta a braccia aperte.
👨🏼 Qualcuno direbbe: “È perché siete terroni 👹”; e sì, è esattamente perché siamo terroni e non potrei desiderare altro✨
Dopo nemmeno sette ore, sono nuovamente seduta a tavola a chiedermi se riuscirò a mangiare ancora senza esplodere. La risposta, ogni anno, è sempre la stessa: sì. Anche questa volta ce la farò. Il pranzo di Natale con babbo è stato una riscoperta: una tradizione di sempre che, dopo i dieci anni in cui non ci siamo visti, ha assunto un nuovo significato. Quello di essersi ritrovati. Appena varco la soglia di casa, me lo legge negli occhi che sto dormendo in piedi (e che, più in generale, sono prossima alla decomposizione). Siamo sempre in quattro ma, nonostante il numero esiguo, riusciamo a fare casino per dieci: ci parliamo addosso, urliamo da una stanza all’altra, a qualcuno viene in mente di accendere il televisore a volume sostenuto, sbattono piatti e bicchieri, a volte volano padelle e in tavola ci sono talmente tante pietanze che sembra che debbano arrivare ancora altre persone. Babbo, prima di cominciare ad avventarsi sugli antipasti, ama sciacquarsi la bocca con un po’ di vino rosso e mi chiede di fargli compagnia. Lui regge, io potrei cadere dalla sedia in qualsiasi momento. Quando siamo seduti tutti a tavola, chiacchieriamo di tante di cose, soprattutto del passato. Qualche volta mi ha chiesto se mi ricordo di nonna Giovanna, di com’era il tono della sua voce e di quanto sapeva cucinare bene. Gli rispondo di sì e sono sincera. A Babbo non l’ho mai detto, ma io non dimentico mai nessuno. Mia zia Marina cucina un po’ come le viene: a volte bene, altre volte mandiamo giù il boccone a forza perché “c’è solo quello eh, non ho fatto nient’altro”. Quando mi prepara la carne, dimenticandosi che sono vegetariana, tratto lo scempio etico-morale che ho nel piatto esattamente come faceva nonno Marco, che non ho mai conosciuto: con la scusa di cuocerlo ancora un pochettino, lo incendio (sì, proprio lo scempio etico-morale). Il risultato è che la carne è immangiabile. Quando mi sento più buona, mi limito a chiedere chi si offre volontario per mangiarla al posto mio. Poi c’è l’insalata, che usiamo per sgrassare o, come direbbe babbo, per scrostare. Durante il pranzo, babbo ha mandato a cagare le sorelle un paio di volte a testa e loro hanno fatto altrettanto. Io me la rido sommessamente e penso che, per certi versi, non è per niente cambiato. A volte mi raggiunge qualche flash del periodo in cui, a Natale, non ci scambiavamo nemmeno gli auguri e non mi sembra possibile. Allora mi guardo intorno: sul muro, vicino alla porta a vetri che dà sul patio interno, c’è ancora il Peter Pan che avevo attaccato insieme a lui quando avevo sei o sette anni; di fronte a me, sulle mensole sopra il termosifone, una foto che mi ritrae in campagna insieme a nonna Giovanna; sul tavolo su cui stiamo mangiando, ben incisi sul marmo nero, i solchi di quando, dopo essermi caricata con tutto il peso, sono riuscita a farmi cadere addosso il tavolo, il centro tavola, la frutta, la Settimana Enigmistica e qualcos’altro di molto pesante (ovviamente, poi presi anche il resto). Sorrido. È come se da questa casa non me ne fossi mai andata. Anche quando non c’ero. Forse, soprattutto in quel periodo. Negli ultimi tre Natale, il dolce lo porto io: il panettone della Pasticceria Cucchi, in Corso Genova 1 a Milano. La mia pasticceria preferita, quella in cui sono andata a fare colazione un milione di volte. Quel panettone, non si sa come, mette d’accordo tutti e, per me, è il più buono del mondo. Piace soprattutto a babbo che, a detta di zia Paola, riesce a farlo sparire con grande nonchalance nelle dieci/dodici ore successive all’apertura della confezione. Verso l’ora di cena, babbo mi riaccompagna a casa, rigorosamente a piedi, nel vano tentativo di digerire il dinosauro che abbiamo appena finito di mangiare. Nell’aria c’è profumo di caminetti accesi, di scorze d’arancia arse tra le fiamme dei fuochi domestici, di mare e di salsedine. Arriviamo all’angolo prima di casa mia o, come avrei detto solo una quindicina di anni fa, di casa di mamma. “Avvisami come arrivi a casa, ba”, glielo dico tra uno schiocco di bacio e l’altro. “Eja Ilariè, buonanotte”, me lo dice mentre si volta per riprendere la via che abbiamo appena percorso.
Così, un altro Natale è trascorso.
È il ricordo di sempre. È il ricordo di sempre? 💭💫
(Se non capisci questo titolo-citazione-canzone, mi sa che ti sei perso qualche cartone animato importante)
Quindi, che sapore ha per te il Natale? 🎄🎁
Per me, il Natale che posso vivere, quello che posso guardare, toccare, respirare e gustare, sa di tutte le cose che ti ho raccontato. Sa di valigia preparata con cura prima di prendere l’ultimo volo della giornata per la Sardegna; delle risate di cui si riempie il tinello della mia casa mentre cucino insieme a mamma e papà; delle mie due gattine che se la dormono nel frattempo e che, quando scorgono uno spiraglio, vengono sotto il tavolo per chiederci di fargli assaggiare qualcosa. Sa di una Vigilia lunghissima e lenta in cui, insieme alle pietanze, a tavola si porta un po’ di serenità e, soprattutto, la gioia di stare tutti insieme e di esserci riuniti. Tanti anni fa ho letto da qualche parte che, per le mamme del sud, a Dicembre non si festeggiano più la Vigilia, il Natale, Santo Stefano e Capodanno. Si festeggia il ritorno dei propri figli, di quelli che vivono più o meno lontani e che, con tanta fatica e tanti sacrifici, si stanno ritagliando il loro spazio nel mondo. Da quel lontano 2014, il mio Natale sa anche di questo. Di gratitudine verso la mia famiglia, di orgoglio per le mie origini, dei volti dei miei genitori sempre più segnati dal tempo e dei solchi che, ormai, vedo inesorabilmente apparire anche sul mio viso. Il Natale che posso vivere, guardare, respirare e gustare sa di caminetti accesi, di scorza d’arancia arsa tra le fiamme del fuoco per profumare la stanza in cui ci si trova, di ragù di soia, di torta allo Champagne, del Panettone della Pasticceria Cucchi, di Cannonau Nepente, di Vermentino di Sardegna, di Mirto e di Limoncello fatto in casa. Sa di salsedine, del rumore delle onde del mare che si infrangono, in lontananza, sugli scogli. Sa di un luogo che sembra non cambiare mai e in cui a invecchiare sono solo le persone che lo abitano e che lo tengono vivo. Sa di riconciliazione, di lieto fine, di tempo che vivo nel modo in cui dovrei viverlo sempre: con amore e consapevolezza, perché nessuno me lo darà più indietro.
Parallelamente al Natale che posso vivere, per me esiste un altro tipo di Natale: tutti i Natale che non torneranno più e che posso rivivere solo guardando attraverso i miei ricordi. I Natale in cui mi svegliavo pazza di gioia perché, finalmente, potevo aprire tutti i regali che erano apparsi come per magia sotto l’Albero. I Natale in cui, prima di cena, spalancavo la porta d’ingresso della casa dei miei nonni e trovavo nonno ad accogliermi, sempre sorridente e pronto a farsi dare due baci, mentre nonna era indaffarata a preparare le ultime cose in cucina. I Natale in cui ci sedevamo a tavola e c’eravamo proprio tutti, anche la bisnonna Giacomina, che mi parlava con il suo accento bergamasco e mi recitava delle filastrocche stupende, guardandomi con i suoi profondi occhi verdi. I Natale in cui organizzarsi era un macello: perché la cena della Vigilia la potevamo fare dalla mamma di papà noi cinque + quel ramo della famiglia, ma poi per il pranzo io ero a casa della mia prozia Aurora con mio padre e i miei fratelli a casa della madre, quindi potevamo nuovamente trovarci insieme a Santo Stefano, magari con i nostri amici più stretti, così i bambini possono giocare tra di loro. I Natale in cui zia Wanda, zio Franco e Alessandro venivano da Roma per trascorrere le feste insieme e, allora, la casa era ancora più incasinata di come sarebbe stata normalmente. I Natale in cui giocavo con i regali che avevo ricevuto TUTTO IL GIORNO, senza mai averne abbastanza. I Natale in cui, dopo aver festeggiato a casa di babbo, si partiva alla volta di Villanova per portare un fiore a nonno Marco e a nonna Giovanna e, sulla strada del ritorno, ci si fermava a Putifigari per dare un bacio alla bisnonna Rosa, che aveva quasi cento anni. Sono stati degli anni meravigliosi, nonostante tutti i casini che mi piovevano addosso costantemente. Sono io ad essere stata una bambina fortunata, nonostante tutto: sempre amata, sempre presa per mano nel momento della scoperta e dello stupore, come in quello del dolore e dei perché.
Oggi, ogni volta che scocca la mezzanotte del 25 Dicembre, esprimo sempre lo stesso desiderio: una tavolata con tutti i posti a sedere occupati. Con nonna che mi riconosce, che sa chi sono e che mi dice, mentre cerco di darle goffamente una mano, che il coltello si porta con la lama rivolta verso il basso perché, se cado, così non mi faccio male. Con la bis Giacomina che batte le mani a tempo di musica e, ogni tanto, si alza per ravvivare il fuoco. Con nonno Marco che, con la scusa di cuocere ancora un po’ la carne che ha nel piatto, la incendia per renderla immangiabile. Con nonna Giovanna che lo rimprovera anche se, immagino, se la sia sempre risa sotto i baffi. Con zia Aurora, che non riusciva a stare seduta a tavola e che, ogni cinque minuti, si alzava per fare qualcosa, anche quando non era necessario. Con nonno Michele a capotavola che, chiamandomi Pupettina Bella, mi dice di sedermi sulle sue ginocchia per mangiare insieme, mentre mi parla con la sua voce profonda.
Più che dalla morte, mi dico, noi esseri umani non riusciamo a riprenderci mai del tutto dall’amore che ci ha unito a chi non c’è più. Fin quando vivrò, sempre, ogni 25 Dicembre attenderò che nonno mi faccia sapere che da qualche parte noi, un giorno, casomai, andremo nuovamente a comprare il giornale insieme, mano nella mano.
E il Natale del futuro? 🎄🛸
Beh, me lo immagino ancora più festoso e chiassosamente allegro di quello che vivo oggi. Con la famiglia che cresce. Con Pietro seduto accanto a me, Laura accanto a Luca e, intorno a noi, i nostri figli che giocano con i regali che hanno ricevuto, per tutto il giorno, senza mai averne abbastanza. Me lo immagino colmo della magia di Babbo Natale, dei cartoni animati Disney promossi dai nonni, di favole lette ad alta voce e di fuoco che scoppietta dentro al camino. Sogno una famiglia come quella che ho avuto io: allargata, in cui c’è spazio per tutti, in cui tutti si sentono al sicuro e in cui, soprattutto, le differenze sono un valore e non uno stigma. Non so se questo sogno si avvererà. So, però, che voglio lavorarci su, affinché possa essere la realtà dei miei figli. Una realtà in cui i nonni (tutti e cinque, perché i miei figli avranno sempre il nonno bonus) si ritrovino a festeggiare sotto lo stesso tetto, in cui abbondino cuginetti, zii, amichetti, gatti e tutto quello che desidereranno.
E in un angolo, quello più rosso del mio cuore, l’amore della mia vita prima di Pietro: nonno Michele, che segue i miei passi dall’alto. Proprio come mi ha promesso la notte di quel 20 Settembre di sedici anni fa.
📌 Last things at last
Da un paio di settimane a questa parte, come per magia, ho smesso di tormentarmi sulla questione “lavoro”. In parte, forse, perché vedo profilarsi all’orizzonte qualche proposta interessante, da vagliare con attenzione e, soprattutto, con allegria. Da vagliare con allegria. Quando mi sono resa conto di aver accostato questa parola all’ambito “lavoro”, mi sono ritrovata a scrivere delle specie di propositi per il nuovo anno e, devo dirti la verità, è una cosa che non ho mai fatto. Non posso considerarli desideri, perché l’anno che verrà avrà il potere di esaudire i più importanti sogni della mia vita. Compirò trent’anni e, se ci penso, sorrido con tutti e trentasei i denti, perché avrò l’occasione di festeggiare con i miei amici e, pochi giorni dopo, con i miei genitori (tutti e tre).
Penso che il 2025, per quanto mi riguarda, sarà l’anno della gratitudine. Sarà un anno in cui, a ogni sogno avverato, a ogni passo in avanti nei progetti che a breve porrò in essere, mi prenderò un momento per assaporare le mie conquiste e per dire grazie. Dopo anni di momenti difficili, di periodi in cui non mi sopportavo, di giorni in cui non riuscivo a vedere la luce in fondo al tunnel dei miei disastri (e in cui, tra l’altro, vedevo i miei sogni nel cassetto somigliare sempre di più a incubi) oggi, finalmente, riesco a capire chiaramente chi sono e cosa voglio diventare anche dal punto di vista professionale. Sono pronta a cominciare a vivere la vita che sento appartenermi veramente e che un giorno, quando mi scorrerà davanti tutta per intero, mi farà commuovere per aver avuto l’onore e il coraggio di viverla per come l’avevo sempre percepita nel mio cuore.
📮 PS: quindi, come sei messo con i regali di Natale? Io bene, considerando che il panettone della Pasticceria Cucchi, anche quest’anno, ha compiuto il miracolo di mettere tutti d’accordo. Hai già pensato a te? Ti sei fatto/a almeno un regalo quest’anno? Io ho quasi terminato l’Espansione 151 delle carte Pokémon, quindi sono al settimo cielo. Sì, colleziono ancora le carte dei Pokémon e le scambio con mio fratello, pensa un po’. Fattelo un regalo, quanto meno per ringraziarti di non aver compiuto stragi e di essere arrivato/a (quasi) sano/a di mente alla fine di quest’anno. Se vuoi fare un regalo anche a me, ti consiglio di leggere quello che ho scritto all’inizio di questa “newsletter” #7. E di iscriverti (ma qui potevi arrivarci da solo/a)👇🏼
Anche se, come mi ha detto Giovanni, “Col cazzo che mi iscrivo, ci manca solo la tua newsletter di merda”.
Buon Natale🫀🎄 Passato, presente o futuro che sia.
Scegli tu.
Ilaria